mercoledì 5 agosto 2020

SIAMO TUTTI CITTADINI DI GOMORRA

Sto leggendo Gomorra di Roberto Saviano.

In ritardo rispetto alle tendenze letterarie, lo so. Un giorno leggerò anche La Casta di Stella e la saga di Hunger Games, quando saranno già belli polverosi sugli scaffali delle librerie di seconda mano.

Gomorra, prima edizione anno 2006. L’anno dei mondiali, almeno per la mia generazione. Sono passati 14 anni eppure non perde un minimo di cruda attualità. Anzi. Si può pensare solo che le cose siano peggiorate.

Il pregio principale di questo libro penso sia la capacità di farti capire quanto ognuno di noi è corrotto. È: indicativo presente, modo del reale.

Ogni giorno compiamo azioni che alimentano l’impero economico mafioso del nostro Paese. Il Paese quello veramente florido. Perché l’Italia è una nazione ricchissima, piena e strapiena di soldi e di affari. Paradossale pensare ai livelli di disoccupazione, alla precarietà, alla povertà che incalza sempre più.

E il centro economico d’Europa qual è?

Napoli.

Paradossale no? Già dalle prime pagine dedicate al porto del capoluogo campano l’incredulità di fronte all’evidenza crea un attrito potente.

Ma torniamo alla corruzione, al fatto che ognuno di noi vi concorre: mi mancano una cinquantina di pagine e ho individuato 4 dinamiche che sicuramente ciascuno ha messo in pratica almeno una volta nella vita:

1. Comprato una borsa, un vestito o un paio di scarpe: può essere una grande griffe del made in Italy, pagata un sacco di soldi in un negozio, indossata da un’influencer o da un’attrice come Angelina Jolie durante una serata degli Oscar. Ma potrebbe essere anche stato uno di quegli acquisti fortunatissimi a prezzo stracciato, un -50% su Amazon o una copia ben fatta strappata al vu cumprà nigeriano per 30€ in spiaggia.

2. Comprato droga: erba, fumo, cocaina, eroina e compagnia cantanti. Forse in un paesino di 300 anime sui monti Nebrodi non ne gira, forse. In tutto il resto del Paese è facilmente acquistabile.

3. Costruito una casa: la sabbia, il cemento, la calce, molte delle materie prime del settore edilizio del nostro Paese sono sottratte illegalmente da terre private del proprio suolo, in continuazione. Cosí come molti degli operai che lavorano nell’edilizia sono migranti interni, ingranaggi di un sistema di centrifuga di panni sporchi che non torneranno mai ad essere puliti.

4. Buttato qualcosa nella spazzatura: ci insegnano a non gettare le cose per terra per una questione di civiltà e rispetto della cosa pubblica. Purtroppo in molti casi stiamo solo spostando il sozzume sotto il tappeto, alimentando una delle più ingorde economie del nostro Paese.

Sono solo quattro punti, ma leggendo questo libro ne troviamo ben altri.

Generalmente sto attenta alle ripetizioni, le evito come i topi i gatti, a meno che non siano funzionali alla narrazione. Ecco, in questo caso sono funzionali.

Il nostro Paese.

Perché arrivata a pagina 240 mi sono sentita parte integrante di questo Paese e mi ha fatto soffrire molto. Nel mio piccolo, nella mia poca capacità, nella mia parzialità ho cercato di fare qualcosa di buono per la società, intesa come singoli e comunità. Eppure oggi, leggendo queste parole, mi sono sentita profondamente indignata, pensando alle migliaia di persone oneste vittime del luogo in cui sono nate, realizzando che ognuno di noi è un inconsapevole carnefice, che il sistema è così radicato nelle strutture e nelle mentalità e così meglio funzionante rispetto allo Stato di diritto che possiamo solo accontentarci dello status di Don Chisciotte contro i mulini a vento. Ma più che indignata mi sono sentita corrotta e inutile. Ho chiuso il libro e lo sguardo dell’autore che occupa la quarta di copertina è risultato oltremodo eloquente. 

Non c'è nulla da fare. Siamo tutti colpevoli.

lunedì 6 luglio 2020

LA STATURA INCALCOLABILE DI ENNIO


Un anno è trascorso. Era fine giugno, l'aria dolce e tiepida e il palcoscenico più che essenziale. La scenografia nient'altro che le meravigliose Terme di Caracalla. Si sono avvicendati tre diversi cori, uno di voci bianche. L'orchestra impeccabile, come poteva essere altrimenti. Erano già tutti sul palco, ordinati e pronti, loro e il pubblico in attesa. Quando il Signor Morricone uscì dal drappo nero che nascondeva le quinte, appoggiato all'avambraccio di un'assistente per raggiungere la sua postazione, si levò un applauso difficile da raccontare. E così si ripeté per ogni sua entrata e uscita.
Se parole ben scelte, ben poste, possono suscitare emozioni ma viverle è un'altra cosa, allo stesso modo le note sui suoi spartiti erano immaginari, ma assistervi era un'altra cosa. Perché alcune persone sono lucifere - portatrici di luce - in un modo che non si può spiegare. L'unica cosa è sedersi, tacere e abbandonarsi a quanto hanno da donare. Il Signor Morricone ne è un esempio. Avanzando a piccoli passi, trascinati, scattosi lo vedemmo prendere posto al centro del palco, posizione che pochi riescono a occupare con bilanciate umiltà e grandezza. Piccolo, le braccia ferme e aderenti ai fianchi, la schiena un po' ricurva, perché gli anni di studio, lavoro e riflessione lasciano sempre le loro tracce.
Impugnò la bacchetta, sollevò le braccia e le Terme di Caracalla presero ad animarsi. La musica fusa con le luci iniziò a muoversi creando correnti che levigavano pietre, soffiavano l'erba, vibravano corpi. Ma non era solo questo. Le composizioni si accompagnavano inevitabilmente alle immagini ispiratrici: primissimi piani, paesaggi solitari, colpi di scena, finali struggenti. Cascate, salotti, prigioni e deserti. Fotogrammi che se hanno lasciato tracce e ferite nella memoria delle persone è stato anche grazie alle melodie che ne hanno plasmato i profili, le intensità, i significati.

Il Signor Morricone era un grandissimo narratore, un acuto osservatore della fisicità umana, dei vortici della psiche, delle creazioni dell'intelletto, delle armonie e dei mutamenti naturali. E tutto ciò che osservava rielaborava. E tutto ciò che rielaborava metteva per iscritto, su carta, in codice con un potere immaginifico incalcolabile. Ma oltre a una vista acuta, per fare ed essere questo mestiere devi armarti di piccone e scavare come un archeologo, alla ricerca delle giuste corde da toccare e pizzicare, dolci trappole emotive che ti conducono dove loro desiderano.

Una serata che custodirò sempre, per diversi motivi. Perché solo Roma, nel suo essere magnifica e autodistruttiva, può creare tali magie. Perché con me c'era l'unica persona in grado di condividere i perché di tutte le lacrime versate. Perché i concerti sono un'altra cosa. Quella fu, semplicemente, una lezione di vita.


P.S. Quando penso a Ennio Morricone, la mia mente corre all'immagine di un uomo, seduto solo su una poltrona di un cinema di provincia. I capelli ormai bianchi di un fu bambino corvino. Nella sala deserta inizia la proiezione. Non si tratta di un film ma di un rattoppo di pellicole che il prete della sua infanzia diede ordine di tagliare. Una scena a cui non puoi sfuggire.  

domenica 28 luglio 2019

IL MIRACOLO DELLA NATURA E LA STRAORDINARIETÀ DELLA SCIENZA, DUE STUPORI CHE SI INTERSECANO

La perfezione della Natura è incantevole, disarmante, soprattutto perché riusciamo a spiegarla fino a un certo punto. La Natura è una scoperta, non un’invenzione. Ed è qui che inizia la storia di Thomas Alva Edison, la sua e quella di molti altri. 



La nostra quotidianità è dare per scontato, è inevitabile e guai non fosse così, si cadrebbe in un labirinto senza uscita. Ma di tanto in tanto è doveroso soffermarsi su quel ‘scontato’, per dargli la dignità che merita. La lampadina, il registratore, il pianoforte, la penicillina, la cinepresa, il telefono, l’automobile, l’acqua calda, il frigorifero: ogni cosa è frutto dell’ingegno umano, di una o più persone che hanno deciso, a un certo punto della loro vita, di lasciarsi vincere dall’ostinazione e impegnarsi, a fondo. 

Ostinazione: ovvero ciò che in principio fa la differenza. Edison provò migliaia di filamenti per il bulbo luminoso prima di trovare quello giusto. Migliaia. Un uomo, migliaia di fallimenti. Oppure, un uomo e migliaia di opportunità. Vincere l’accidia, ecco la vera sfida alla base. Lasciarsi conquistare dalla perseveranza, il segreto del successo che cambia il mondo. Vedere sul grande schermo la storia di Edison, Tesla e Westinghouse mi ha suscitato una grandissima emozione: uomini simili a noi, comuni mortali con debolezze, oscurità, menzogne ma dotati dell’allenato dono della testardaggine proficua. Cosa può fare l’essere umano, quanta grandezza può creare, quanta dignità può conferire all'intelligenza che si ritrova. Eppure non sono queste le vere vittorie. 

C’è stato un momento preciso nella seconda metà del film in cui ho capito qualcosa, un qualcosa su cui avevo riflettuto già altre volte ma che vale sempre la pena riscoprire. In quel preciso momento della pellicola, in cui il montaggio fa la narrazione, si vedono in parallelo due accadimenti. Siamo a Chicago, durante la cerimonia di apertura dell’Esposizione Universale. Siamo anche all'interno di un carcere in cui si sta per eseguire una pena capitale. A Chicago volti stupefatti e increduli guardano in estasi l’accensione di migliaia di lampadine, grazie alla trovata di Nikola Tesla e all’intraprendenza di George Westinghouse di utilizzare le cascate del Niagara per dare energia elettrica alla città. Nella prigione il primo esemplare di sedia elettrica e le scintille che torturarono l’uxoricida invece di dargli una morte “civile” così come proclamato in precedenza. 

Il minimo comun denominatore di entrambi gli accadimenti ha due nomi e un cognome: Thomas Alva Edison. Il genio, la perseveranza, il coraggio e le loro applicazioni. A fare la vera differenza sono le applicazioni. L’applicazione è scelta. La scelta è libero arbitrio. Il libero arbitrio è il miracolo nell’uomo.   

giovedì 25 aprile 2019

I GRANDI ASSENTI DEL 25 APRILE


Questa mattina a Valmarana si è svolta la celebrazione del 25 aprile, l’anniversario della Liberazione d’Italia, il giorno del 1945 in cui nazisti e fascisti si ritirarono dalle città di Milano e Torino a seguito della ribellione popolare e della lotta partigiana. La guerra non finì proprio il 25 aprile, ma questa data divenne il simbolo della svolta da ricordare, una ricorrenza annuale stabilita nel 1946 dal governo provvisorio di Alcide de Gasperi. 
Sono passati 73 anni da quel decreto, 74 da quel 25 aprile. Sotto l’ombra dell’albero al centro della piccola piazza della frazione di Valmarana, una settantina di persone, a spanne, ravvivano il ricordo di quanti sacrificarono la propria vita per la Libertà, di quanti lottarono, videro e vissero la sofferenza fisica, la lacerazione morale, la messa alla prova spirituale di se stessi e di quanti stavano loro attorno.
Durante la messa, don Daniele ha iniziato l’omelia dicendo che la Libertà che oggi si festeggia non può essere data per scontata. Il riferimento va al nostro Ministro degli Interni, il quale si è pubblicamente rifiutato di partecipare alla commemorazione, definendo il 25 aprile un “derby tra fascisti e comunisti". Ha scelto il gergo calcistico risultando, anche per questo, semplicistico e irrispettoso per quanto e chi oggi è ricordato.
Ma se il Ministro figura uno dei grandi assenti all’anniversario della Liberazione, stamattina a Valmarana era l’assenza di qualcun altro a interrogarmi. Un bambino, due ventenni e due, forse tre, trentenni, tra cui uno il prete officiante. I grandi assenti di oggi, di fronte al monumento ai caduti di Valmarana, sono i giovani. Walter Bedin, durante l’intervento al termine della celebrazione, ha espresso in due parole il dispiacere per vedere poche facce con poche rughe tra le fila dei presenti. Lo ha fatto in modo diretto, semplice, sincero, non moraleggiante e senza rimprovero, un accenno che condivido.
E mi chiedo: tra venti, trenta, quarant’anni il 25 aprile si festeggerà ancora?
Nel paese di Altavilla Vicentina per la prima volta non ci sono testimoni che la Liberazione l’hanno fatta, il tempo è trascorso e il loro corpo col tempo. Gli alpini, i rappresentanti delle associazioni, i politici locali, i cittadini che stamattina hanno reso onore ai caduti lo hanno fatto per il ricordo prossimo dei genitori, dei fratelli, dei nonni, dei conoscenti. Lo hanno fatto in segno di rispetto per persone conosciute.
Quando questo ricordo diverrà sempre più lontano e slegato dai propri affetti, avrà la forza di sopravvivere?
Basterà un post su Facebook? Una foto su Instagram? Sarà sufficiente un tweet?
Ma la piazza, la condivisione pubblica, la tromba che intona l’Onore ai caduti, la bandiera italiana, che fine faranno? Stiamo dando per scontato che la memoria rimarrà viva grazie ai nostri vecchi, forse è per questo che non usciamo di casa per festeggiare il 25 aprile. Ma quando i vecchi saremo noi, quando i vecchi saranno i nostri nipoti, delegheremo al digitale anche questi ricordi? O, semplicemente, finiremo per non ricordare?
Daniele ha terminato l’omelia con queste parole: “i cristiani lottano per le persone, non per le cause”. Non solo i cristiani. È bello pensare che i nostri nonni si siano sacrificati per i figli che ancora non avevano in grembo. È ancora più commovente pensare che si siano sacrificati per i nipoti, noi, che di alcuni nonni non hanno che qualche ricordo e di altri nemmeno quello, ma che a loro, comunque, devono moltissimo.
E questo non possiamo darlo per scontato. 

giovedì 27 dicembre 2018

REGALARE UN ALBERO


Non è follia, ma un suggerimento per un regalo originale e altruista, il pensiero perfetto per un amico o una persona cara particolarmente sensibile al tema ambiente.
In particolare, ci riferiamo alla piattaforma web Treedom, fondata a Firenze nel 2010, l’unica al mondo che permettere di “adottare” un albero a distanza.

Come funziona?

Farlo è coinvolgente e suggestivo, come fare una passeggiata in un vivaio grandezza mondo. I passaggi sono pochi e semplici:
1. Registrati sul portale
2.Scegli l’albero che preferisci e mettilo nel carrello
3.L’albero da te scelto sarà geolocalizzato, fotografato e avrà un profilo online personale per seguirlo nella sua crescita
4.Se vuoi fare un regalo, scegli la modalità di consegna (email, biglietto cartaceo, Whatsapp, …) e scrivi una dedica che rimarrà virtualmente incisa sull’albero
Le specie tra cui scegliere sono moltissime, ognuna associata ad uno degli 11 paesi in cui opera questa realtà, ma non solo. Il team di Treedom ha costruito attorno al mondo delle piante un immaginario accattivante e divertente che permette di personalizzare ogni acquisto. Ciascun esemplare è associato ad una particolare virtù, caratteristica caratteriale, significato o augurio. Per questo Natale, ad esempio, sono disponibili alcune limited edition come il Baobab per il Kenya, simbolo di Vita, o la pianta di caffè del Nepal, sinonimo di Energia.
Ma non finisce qui. Esplorando il sito potrai scoprire gli alberi associati ai segni dello Zodiaco, quelli ideali per festeggiare una nuova nascita, commemorare una persona che non c’è più e molto altro.
Ogni individuo che prende parte al progetto nutre la community di Treedom, che ad oggi vanta numeri importanti. Più di 120 mila persone hanno acquistato dalla piattaforma per un totale di 465.540 esemplari piantumati in Africa, America Latina, Asia e Italia. Gli agricoltori coinvolti sono più di 27 mila mentre le imprese che hanno aderito alla missione sono 651. Proprio a quest’ultime è dedicato un servizio su misura legato alle tematiche di valori aziendali e corporate identity.

Filosofie d’impresa green

Questo audace e innovativo business model ha permesso nel 2014 a Treedom di entrare a far parte della Certified B Corporations. Si tratta di un network di imprese appartenenti a 140 settori e 60 paesi al mondo impegnate a creare profitto in modo responsabile e sostenibile, nel rispetto dell’ambiente e della dignità umana.
Tutti gli alberi vengono piantati direttamente da contadini locali e contribuiscono a produrre benefici ambientali, sociali ed economici. Tra i diversi obiettivi di questa realtà, uno dei focus principali è l’attenzione alla CO2. Oltre a indicare la quantità di anidride carbonica che ogni tipologia di pianta è in grado di assorbire, uno spazio della piattaforma è dedicato proprio al calcolo della CO2 che ciascuno di noi produce ogni giorno. La stima viene fatta in base ai mezzi di trasporto utilizzati, il cibo consumato, gli acquisti effettuati e le risorse energetiche impiegate.
I risultati lasciano basiti. Riflettere sull’impatto che una singola persona può avere sull’ambiente è doveroso. Farlo contribuendo attivamente per la sua riduzione è ancora meglio. Ecco perché consigliamo di regalare un albero: un bel pensiero è per sempre.

sabato 3 novembre 2018

I LIBRI NON TRADISCONO


Ti capita mai di produrre una massima in modo assolutamente involontario. Poche parole, che si palesano limpide nella caverna della mente. Inizialmente le lasci scappare via, come accade per la maggior parte dei pensieri che produciamo. La strana eco lasciata, però, ti induce a richiamarle indietro e, stupita, ti dici: “Apperò!”

I libri non tradiscono.

Avevo appena chiuso il pc su una storia nella quale mi ero un po’ immedesimata. Faccio per prendere in mano Pirandello e, inaspettatamente, la mia mente ha confrontato le due narrazioni, con questa breve frase.
In un libro le parole sono sempre quelle, dal primo all’ultimo capitolo, nell’introduzione, nell’indice, nella quarta. Rimangono tali, dal “Visto si stampi”, al momento in cui lo scegli dallo scaffale, mentre sei immersa nella lettura, quando lo riponi terminato di leggere, anche quando vent’anni dopo lo rispolveri per consigliarlo a tuo figlio.

I libri non mentono,

Sono immutati, sempre uguali a loro stessi. Se potessero guardarsi allo specchio, al di là di qualche piega e macchia d’anzianità, si riconoscerebbero, sempre e senza troppi problemi.
Sei tu che li cambi, li guardi diversamente, li manipoli e direzioni verso vie che loro, i libri, non avevano neppure considerato. Essi sono lì, coerenti, interi, accessibili in qualsiasi momento o al momento giusto, ma comunque sempre lì.

Non sono come noi:

parziali, ambigui, mutevoli, capricciosi. Non sappiamo e, ancora meglio, odiamo leggerci, ci risulta faticoso e scomodo. Preferiamo illuderci di scriverci a nostro piacimento, definendo ogni virgola e apostrofo, senza commettere errori di sintassi o morfologia. Ma nella sostanza, non sappiamo proprio dove andare. Ogni volta che finiamo di riempire d’inchiostro una pagina e dobbiamo quindi voltarla, siamo soffocati dalla speranza.

Per questo leggiamo: perché i libri non tradiscono, mentre noi sì.

Sono una piccola certezza che colma alcune nostre intrinseche insicurezze. Raccontano storie con un inizio e una fine, alle quali possiamo assistere con consapevolezza, distacco e coscienza, a differenza di quel che accade per le nostre vite umane. Possiamo partecipare, vedere, toccare una concretezza che a noi manca. Gioire per un lieto fine, piangere per una tragedia annunciata, rinvigorirci per una giustizia compiuta, indignarci per un torto non sanato, innervosirci per un finale aperto, ma pur sempre compiuto.  

martedì 9 ottobre 2018

LA FIDUCIA DI ANTONELLO VENDITTI PER L'ARENA


Un evento, in questo caso un concerto, può scatenare emozioni contrastanti. Mi è accaduto poche settimana fa, in quel dell’Arena. Due protagonisti: Antonello Venditti e il pubblico. Non vorrei soffermarmi troppo sulla terza protagonista, la sfiga, che ha accompagnato come un gufo appollaiato sulla spalla di artista e service dall’inizio a buona parte dello spettacolo. La sfiga, giusto per darle quel po’ di evidenza che merita, ha reso ancor più memorabile un evento nato, umilmente quanto basta, per esserlo. Vorrei invece concentrarmi sulla qualità del rapporto tra Antonello Venditti e il pubblico.

Per chi non lo sapesse, Antonello Venditti è un cantautore, se la scrive e se la canta a suo piacimento. L’impressione, tuttavia, è che nella serata in Arena molti siano rimasti spiazzati, intontiti, oserei con un delusi, nel constatare che il cantastorie, per il quale avevano pagato un biglietto cospicuo o per il quale condividevano quasi abbracciati il fiato con altre cinque persone accollate, in realtà era un cantautore. E non un cantautore di quelli di oggi, bensì uno della vecchia guardia, classe ’49 per la precisione. Trattasi di sessantottino della prima ora, un bollino rosso centrato in pieno dalla freccia della storia italiana fatta di proteste studentesche, poi operaie, desiderio di emancipazione e libertà dei costumi, ribellione all’autoritarismo dei padri e delle istituzioni.

Questo artista-uomo, uomo-artista, si è prestato in pieno agli occhi di chi sapeva a cosa andava incontro e di chi ne aveva solo una pallida idea. Il desiderio di condividere la propria storia passata e la visione futura, la necessità impulsiva di raccontarsi, di spiegare il perché delle parole scelte, delle vicende e delle tematiche più sentite, vissute rigorosamente in prima persona: la scuola, la solitudine, la paura del mondo e delle donne, la droga come condanna o poesia, il sesso come legame di spiriti, l’amicizia come forma più completa dell’amore. Il Venditti che ne è uscito è stato un hic et nunc, un pane da spezzare sul momento, caldo di passione per quel che si è e si fa, consegnato a una massa di individui, che lui ha il coraggio (in senso buono) di chiamare amici, “i più sinceri”.

Ed è qui che l’umore cambia, nel vedere una fiducia schiaffeggiata da più di qualcuno. Mi spiego meglio facendo un po’ di cronaca: ieri sera Antonio, in arte Antonello Venditti, ha introdotto quasi tutti i brani da una spiega a braccio, tanto pensata quanto emotiva, a volte imperfetta, sempre personale. In qualche frangente si è dilungato un po’, prendendosi i suoi tempi, d’altronde, era il suo concerto speciale. Quando il pubblico ha compreso l’approccio del cantautore alla serata, sono iniziati alcuni fischi e lamentele. Presumo, quindi, che la gente fosse lì per sentirlo cantare, non certo parlare, la prosa vissuta come una bella perdita di tempo. Si dia il caso che, testimoni le mie orecchie, sopra di me sedesse una giornalista milanese, che più volte ha apostrofato Venditti con espressioni colorite: “Uno stronzo arrogante”, “Canta!”, “Sta delirando”. Tanto brava a riconoscere i signori giornalisti accomodati nella tribuna stampa quanto restia a comprendere il Venditti cantautore.
Non c’è da stupirsi: siamo nell’epoca del fast food, del consumare e bruciare in fretta, della velocità prima di tutto, anche nei piaceri e nell’arte. Siamo sempre più abituati allo show, alle performance, agli effetti speciali. Siamo sempre meno capaci di ascoltare e accogliere semplici e dirette parole che vanno a fondo nelle cose.

Venditti, nonostante la sua grandissima fiducia nel domani, è figlio di una generazione passata che non c’è più. Una generazione che non può che rimanere delusa dalla superficialità e dall’accidia che oggi affligge molti, almeno tanto quanto rimase delusa da se stessa quando i ragazzi dai capelli lunghi pochi anni più tardi furono relegati in un cassetto del comodino in soffitta, per ricoprire un solido e sicuro posto in banca. Una delusione che a Venditti ha spezzato il cuore ma che la signora dietro di me non ha esitato un attimo a minimizzare: “Ambé, se questa è una delle canzoni che lo ha fatto più soffrire!”. Stava per iniziare Giulio Cesare. Grande esempio di empatia e rispetto per l’intimità altrui.

mercoledì 13 dicembre 2017

M'INNAMORO DELLE STORIE

M’innamoro delle storie, quelle ben fatte. È più forte di me e può essere un problema.

M’innamoro delle storie che si dispiegano e si disfano come un filo dal rocchetto, così, da sole, senza una mano che le tiri. O meglio, dando l’impressione che non ci sia.

M’innamoro delle storie che si dispiegano e si disfano al buio, di notte, nell’altra metà del giorno, quella fatta per riposare, per coricarsi e abbassare il volume dei pensieri.

M’innamoro delle storie ben fatte, è più forte di me, e può essere un problema. Perché quando una storia è ben fatta e te ne innamori, ti ci cali dentro, ti lasci rapire e rapire non è un bel verbo. Potrebbe essere una forma di sindrome di Stoccolma. Rapita da una storia ben fatta, da una pila di fogli rilegati, da parole accostate, da sguardi immaginati, da una mano stringente dell’inchiostro, da una macchinosa ripresa, o da un pensiero.

Il problema che tale sindrome di Stoccolma provoca non è il rapimento, ma l’innamoramento che nella circostanza nasce e quindi imbriglia. Lasciarsi imbrigliare da una storia equivale a disperdersi in un contesto irreale, o perché solo immaginato o perché reale ma non nostro. Il fatto è che non posso farne a meno. È una scelta, una ricerca, un bisogno di lasciarsi prendere e portare da qualche altra parte.

La realtà non mi basta, la via di fuga, l’uscita di sicurezza devono sempre essere visibili. Possono essere degli occhi ben addestrati, dei gesti pensati, dei silenzi pesanti. Le parole giuste, i versi non detti, le frasi apparentemente sbagliate. I paesaggi studiati, momenti di serendipità o disegni della natura. un ragionamento che fila, una trama perfetta che si svela alla fine o una conclusione mozzata. La tensione, il sollievo, la passione, il dolore.

Può essere qualsiasi cosa, l’importante è non aspettarsela. Si presenta, la colgo, lascio che si insinui e il pasticcio è combinato. Non tocco più terra, navigo in gesti d’altri, in scene costruite così bene da parere vere e mi immedesimo, vorrei essere lì, al posto di qualcuno di loro, sentire quel che sentono, capire se un briciolo di verità lì e in me nel lì esiste.

Non so se in tale fuga ci sia spazio per la felicità. Il pensiero che essere felici si accompagni all’accontentarsi, mi spaventa. La mediocrità è la mia dama con la falce. Così, per timore di vedermela appresso, scappo in altri luoghi, in altre persone, in diversi sentimenti. Per fare ciò, mi faccio bastare il pensiero del quale riesco pure ad essere gelosa, possessiva.

Amo provare emozioni in esclusiva, ingenua nella speranza della loro unicità e preziosità. M’illudo per provare piacere. Autoinfliggermi amori non corrisposti, una sindrome di Stoccolma. Vittima consapevole e volontaria di storie ben fatte.  Ma si sa: il filo tra piacere e dolore può essere sottilissimo, talvolta invisibile.

mercoledì 4 ottobre 2017

LA VASCA

Risultati immagini per vasca da bagno dipinto ingres no copyright
Nella prossima vita mi comprerò una vasca da bagno lunga come me, è un bisogno che in certi momenti si manifesta in tutta la sua necessarietà. Quando hai la febbre, per esempio. Tutto il corpo dovrebbe contemporaneamente immergersi nell’acqua, sennò capita come ora che le ginocchia se ne stanno fuori a prendere freddo, perché la precedenza nell’ammollo ce l’ha il petto congestionato. Ottimale sarebbe invece non fare preferenze, a tutto il corpo lo stesso trattamento.

La vasca. Era un sacco di tempo che non mi facevo un bel bagno. In realtà prediligo la doccia, per vari motivi: praticità, rapidità, responsabilità ecologica. Ma i brividi che mi hanno accompagnata tutta la notte e per i quali non ho dormito mi hanno fatto cedere. D'altronde è una fortuna avere la vasca. È una di quelle cose che usi poco, quasi mai, ma che se non avessi ne sentiresti parecchio la mancanza. Mentre immergo la testa noto con dispiacere che la schiuma si è quasi del tutto dileguata. Peccato. Non sarà un bagno da grande diva, non sarebbe stato comunque l’obiettivo, ma mi costringe un po’ a guardarmi, un vis à vis che non mi è così familiare, e penso a come sia assurdo non essere familiari a se stessi.  

Aprire i polmoni, lenire la tosse, alleviare la stanchezza muscolare, sciogliere i nervi. Ricordo il nonno, il quale più volte mi raccontò di quando da piccolo, in preda ad una grave polmonite, disse al medico e a sua madre che quel che lo avrebbe fatto stare sicuramente meglio sarebbe stato un bagno bollente. Lo accontentarono e fecero bene. La saggezza delle cose semplici. Ricordo la nonna, e lì ero io ad essere piccola. Nel giardino di casa mi metteva nella stessa tinozza di legno nella quale lavava i panni, facevo il bagno con le bambole mentre osservavo i passanti. Un’immagine che conservo calda, come l’acqua nella quale m’immergeva. Sono contenta di averla collezionata, con il suo profumo di altri tempi che io stessa ho solo sfiorato, purtroppo.

Ogni tanto apro il rubinetto per mantenere la temperatura. Mi faccio lo shampoo, quello con l’etichetta catalana, uno degli ultimi pezzetti di una quotidianità che ogni giorno è più lontana, ma ancora non esaurita. La mia babysitter mi regalava i libretti impermeabili e le paperelle per incoraggiarmi alla vasca, non perché avessi un’avversione per l’igiene, ma per il fastidio di asciugarmeli, i capelli, un rituale che non riesco a risparmiarmi.

La vasca da bagno è un luogo, più che un oggetto. Forse è questo il segreto del suo essere malleabile. Nella cinematografia, per esempio, si spazia dalla classica scena del corpo morto, nudo o vestito, a secco o in ammollo, fino a scene ben più divertenti e complici. L’ho sempre ritenuto un luogo ad alto potenziale meditativo, che potrebbe addirittura avere avuto un ruolo non marginale nel concepimento di alcune importanti intuizioni o idee della storia.

Aldilà di ciò, in questo momento la mente mi si mostra piuttosto vuota, forse in pausa. Solo collage di ricordi, mentre mi sparpaglio i capelli nella vasca, per sciacquarli prima del balsamo, tutti in movimento, fluttuanti, come i serpenti di Medusa.


Giulia Tirapelle

giovedì 21 settembre 2017

IL PRIMO GIORNO D'AUTUNNO




Sono sceso nell'archivio del mio ufficio, nella sezione dedicata ai carcerati. Ci ho trovato un pezzo di diario quasi per sbaglio, fra la polvere e i vecchi documenti che andranno al macero. Ci ho trovato una risposta insieme a tante domande. Così inizia Il primo giorno d'autunno, con parole che si interrompono perchè scritte su di un foglio rovinato:

" L'automobile sale lungo la strada, piove come piove spesso il primo giorno d'autunno. L'atmosfera poi è spenta, un pò sono i muri arancioni con quelle foto di tempi passati, un pò sono le luci del palco accese per metà. Poca gente in sala questa sera. E tu non ci sei.
Le persone sono ordinarie, si vede il lavoro che fanno. Se l'intuito non confonde mi ritrovo in mezzo alla cena di qualche fabbrica, il contentino concesso al padrone in cambio di ogni segno delle mani. E tu non ci sei.
Non c'è nemmeno un briciolo di poesia fra queste sedie di paglia, fra la possibilità di scegliere un piatto piuttosto che un altro. Non servono nemmeno il vino di queste colline, provano goffamente ad essere eleganti: il vino toscano. Pance segnate da ciò che rimane, una tavola e quattro amici perchè così è la vita degli operai. E io che vorrei andare in Africa, che il mondo mi chiama e non mi basto.
La cameriera sale sul palco, ecco gli operai riporre la forchetta, si alzano anche loro. Un batterista, certo il basso e la chitarra, le tastiere...che novità.

- Con te dovrò combattere. Non ti si può pigliare come sei, i tuoi difetti son talmente tanti che nemmeno tu li sai. Sei peggio di un bambino capriccioso- , fanno Mina.

Ma io sono fermo, mi si blocca lo stomaco. Il tavolo è pietrificato. Estasi.
E' il tempo di una voce meravigliosa, di una musica nuova e bella che tutto cambia. Sono operai che salgono fra i monti per regalarsi un tempo speciale. Non li riconosco più, sono turbato.
II giornale dice che il mondo non è poi così lontano da casa, mani sporche di olio possono produrre accordi universali. E quanto sono arrugginito, quanto sono stato lontano ed ora vicino alla bellezza. E' un covo di lupi in pianura, miele divino la sera. Oro. Non posso che stare bene imparando dalla periferia della città. In pasto a chi vende sogni e carriere. Qui suonano i Dire Straits. Il primo giorno d'autunno piove lento o c'è un sole chiaro. Viene quasi voglia di accendere la stufa e sembra quasi che i gatti lo capiscano. Non ci devo pensare. E' un'arancia matura. Un'osteria di "gente comune", termine odioso.
Fossi in te mi fiderei del tuo territorio, dei posti che pensi di conoscere, delle persone che pensi di conoscere. Fidati di un'osteria il primo giorno d'autunno, con i camerieri che cantano "Vieni via con me" perchè è tempo di andare.
Il primo giorno d'autunno è un'osteria di giovedì sera, con la pioggia o con il sole. Con la musica e la voce di chi non è nessuno e per questo unico portatore di umanità. Ci sono le parole che non vorresti sentire. O forse si. Ci sono io perchè ci sei tu, il primo giorno d'autunno.
 Il senso? "

Qui si interrompe, inizia una macchia che non saprei se di sangue o di vino.
E' un segno che dobbiamo continuare, oggi che scrivo il ventunesimo giorno di settembre.
Il segno dei testi che verranno, il senso della vita che passerà.
Sarà bello....


SIAMO TUTTI CITTADINI DI GOMORRA

Sto leggendo Gomorra di Roberto Saviano . In ritardo rispetto alle tendenze letterarie, lo so. Un giorno leggerò anche La Casta di Stella e ...