La famosa ansia da foglio bianco.
Come quando sai che entro pochi giorni ti ritroverai di
fronte a un vecchio amico, col quale hai condiviso molto eccetto gli ultimi
anni di vita. Così speri ci sia ancora quell'intesa che faccia sfociare le
battute in risate e il calore dei ricordi in stimoli per riprendere da dove ci si
era lasciati, guardando avanti, non certo indietro.
È un po’ questo lo spirito con cui osservo lo spazio bianco.
Un vecchio amico che si è rivelato fedele ma che da tanto tempo non frequento, e
mi lascio intimorire. Ho riordinato gli scritti passati, cercando uno spunto, un
appiglio da dove ricominciare. E due cose ho notato. La prima: scrivere è
dimenticarmi di quanto ho scritto; è incredibile come l’effetto sia spesso
quello di leggere parole altrui, come se la mia testa sia così piena e satura
da utilizzare questo stratagemma per depurarsi, svuotarsi e dimenticare. La
seconda: mi è sempre piaciuto ritrarre persone con le parole. E qui, in questo
momento preciso della mia vita, la cosa non mi rende felicissima. Il motivo? Sto
leggendo “Mr Gwyn” di Alessandro Baricco e, sebbene sia a metà, ho scoperto che
l’autore affibbia al protagonista la stessa passione. Eccola, la paura di
copiare senza sapere, l’irritazione nata dal fatto che qualcun altro prima di
te e pure conosciuto ti destina ad essere l’eterno secondo, se ti va di lusso.
Ed è qui, pensando a come procedere sul foglio bianco, mi s’insinua
un’immagine.
Cererìa Subirà. Si
tratta di un negozio, la cui insegna porta il numero 1761, la data di apertura
al pubblico. Si trova nella stradina che collega Piazza San Jaume a Via
Laietana, subito dietro la Cattedrale, nel cuore del Barrio Gotico di
Barcellona. È tra i negozi più vecchi della città, un’unica stanza, ampia e
dall'alto soffitto, arredata con scaffalature in legno fiere del loro fascino d’antan,
anche se un po’ “idratate”, per necessità, non per vezzo. Sui vari ripiani:
candele.
Penso, ci vuole coraggio e incredibile intraprendenza a
vendere cera per 256 anni. Non parliamo di metalli preziosi, di pietre rare o
introvabili, di generi alimentari, di abiti, di mezzi di locomozione. Parliamo di
cera: una materia solida composta da un materiale di base (paraffina, cera d’api)
e additivi (coloranti, resine, profumi). Un oggetto, la candela, tanto comune quanto
suggestivo e apprezzato, fatto per sciogliersi e scomparire. Dico per
sciogliersi e scomparire perché le candele non utilizzate, con il passare del
tempo, si riempiono, trattengono e intrappolano uno strato di polvere che le
ingrigisce e spegne molto più del fiato che ne smorza la fiammella.
Ma come si spiega la sopravvivenza della Cererìa Subirà. La prima idea potrebbe
essere proprio l’intrinseca lungimiranza e la fama conquistate negli anni.
Tuttavia, temo che il fascino dell’antico non basti, come testimoniato dai
tanti luoghi e siti storici che non vengono risparmiati dall’anti-romantica
legge del mercato e chissà da quali altre forme di cinismo e ignoranza. Veramente
determinante potrebbe risultare un altro fatto. La Cererìa Subirà non vende cera, non vende candele: vende forme.
Forme nate dalla mente, dagli stampi, dalle mani di donne da
laboratorio artigianale, che uniscono sostanze viscose a idee e colori, creando
anche solo una conchiglia o un cilindro, ma con precisione e imperfezione
semplici e uniche, destinati a sciogliersi e scomparire ognuno a suo modo, durante
una cena, un bagno, una serata sul divano, una seduta spiritica o un gioco di
società.
Potrebbe essere un’idea per rincuorare tutti coloro che in
qualche modo provano l’urgenza di dare forma esterna a quella specifica esigenza
interna e che puntualmente si sentono dire: “Sì sì, questo pezzo mi ricorda
troppo l
’intro del terzo album dei..” o “Pazzesco, lo sai che il finale del tuo
racconto è lo stesso di” o ancora “Il tratto che hai utilizzato per gli occhi
ricorda quel pittore avanguardista”. E se non si è convinti di essere
inevitabilmente fabbricanti di unicità, si può sempre adottare l’obiettivo di
salvare le parole, i segni, le melodie dalla polvere, la quale rende giustizia
solamente alle vecchie bottiglie nelle cantine o agli album fotografici nelle
soffitte. Giulia Tirapelle
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