Un evento, in questo caso un concerto, può scatenare emozioni
contrastanti. Mi è accaduto poche settimana fa, in quel dell’Arena. Due
protagonisti: Antonello Venditti e il pubblico. Non vorrei soffermarmi troppo
sulla terza protagonista, la sfiga, che ha accompagnato come un gufo
appollaiato sulla spalla di artista e service dall’inizio a buona parte dello
spettacolo. La sfiga, giusto per darle quel po’ di evidenza che merita, ha reso
ancor più memorabile un evento nato, umilmente quanto basta, per esserlo. Vorrei
invece concentrarmi sulla qualità del rapporto tra Antonello Venditti e il
pubblico.
Per chi non lo sapesse, Antonello Venditti è un cantautore,
se la scrive e se la canta a suo piacimento. L’impressione, tuttavia, è che
nella serata in Arena molti siano rimasti spiazzati, intontiti, oserei con un
delusi, nel constatare che il cantastorie, per il quale avevano pagato un
biglietto cospicuo o per il quale condividevano quasi abbracciati il fiato con altre
cinque persone accollate, in realtà era un cantautore. E non un cantautore di
quelli di oggi, bensì uno della vecchia guardia, classe ’49 per la precisione. Trattasi
di sessantottino della prima ora, un bollino rosso centrato in pieno dalla freccia
della storia italiana fatta di proteste studentesche, poi operaie, desiderio di
emancipazione e libertà dei costumi, ribellione all’autoritarismo dei padri e
delle istituzioni.
Questo artista-uomo, uomo-artista, si è prestato in pieno
agli occhi di chi sapeva a cosa andava incontro e di chi ne aveva solo una
pallida idea. Il desiderio di condividere la propria storia passata e la visione
futura, la necessità impulsiva di raccontarsi, di spiegare il perché delle
parole scelte, delle vicende e delle tematiche più sentite, vissute
rigorosamente in prima persona: la scuola, la solitudine, la paura del mondo e
delle donne, la droga come condanna o poesia, il sesso come legame di spiriti,
l’amicizia come forma più completa dell’amore. Il Venditti che ne è uscito è
stato un hic et nunc, un pane da
spezzare sul momento, caldo di passione per quel che si è e si fa, consegnato a
una massa di individui, che lui ha il coraggio (in senso buono) di chiamare
amici, “i più sinceri”.
Ed è qui che l’umore cambia, nel vedere una fiducia
schiaffeggiata da più di qualcuno. Mi spiego meglio facendo un po’ di cronaca:
ieri sera Antonio, in arte Antonello Venditti, ha introdotto quasi tutti i
brani da una spiega a braccio, tanto pensata quanto emotiva, a volte imperfetta,
sempre personale. In qualche frangente si è dilungato un po’, prendendosi i
suoi tempi, d’altronde, era il suo concerto speciale. Quando il pubblico ha
compreso l’approccio del cantautore alla serata, sono iniziati alcuni fischi e
lamentele. Presumo, quindi, che la gente fosse lì per sentirlo cantare, non
certo parlare, la prosa vissuta come una bella perdita di tempo. Si dia il caso
che, testimoni le mie orecchie, sopra di me sedesse una giornalista milanese,
che più volte ha apostrofato Venditti con espressioni colorite: “Uno stronzo
arrogante”, “Canta!”, “Sta delirando”. Tanto brava a riconoscere i signori
giornalisti accomodati nella tribuna stampa quanto restia a comprendere il
Venditti cantautore.
Non c’è da stupirsi: siamo nell’epoca del fast food, del
consumare e bruciare in fretta, della velocità prima di tutto, anche nei
piaceri e nell’arte. Siamo sempre più abituati allo show, alle performance, agli
effetti speciali. Siamo sempre meno capaci di ascoltare e accogliere semplici e
dirette parole che vanno a fondo nelle cose.
Venditti, nonostante la sua grandissima fiducia nel domani,
è figlio di una generazione passata che non c’è più. Una generazione che non
può che rimanere delusa dalla superficialità e dall’accidia che oggi affligge
molti, almeno tanto quanto rimase delusa da se stessa quando i ragazzi dai
capelli lunghi pochi anni più tardi furono relegati in un cassetto del comodino
in soffitta, per ricoprire un solido e sicuro posto in banca. Una delusione che
a Venditti ha spezzato il cuore ma che la signora dietro di me non ha esitato
un attimo a minimizzare: “Ambé, se questa è una delle canzoni che lo ha fatto
più soffrire!”. Stava per iniziare Giulio Cesare. Grande esempio di empatia e
rispetto per l’intimità altrui.
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