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martedì 9 ottobre 2018

LA FIDUCIA DI ANTONELLO VENDITTI PER L'ARENA


Un evento, in questo caso un concerto, può scatenare emozioni contrastanti. Mi è accaduto poche settimana fa, in quel dell’Arena. Due protagonisti: Antonello Venditti e il pubblico. Non vorrei soffermarmi troppo sulla terza protagonista, la sfiga, che ha accompagnato come un gufo appollaiato sulla spalla di artista e service dall’inizio a buona parte dello spettacolo. La sfiga, giusto per darle quel po’ di evidenza che merita, ha reso ancor più memorabile un evento nato, umilmente quanto basta, per esserlo. Vorrei invece concentrarmi sulla qualità del rapporto tra Antonello Venditti e il pubblico.

Per chi non lo sapesse, Antonello Venditti è un cantautore, se la scrive e se la canta a suo piacimento. L’impressione, tuttavia, è che nella serata in Arena molti siano rimasti spiazzati, intontiti, oserei con un delusi, nel constatare che il cantastorie, per il quale avevano pagato un biglietto cospicuo o per il quale condividevano quasi abbracciati il fiato con altre cinque persone accollate, in realtà era un cantautore. E non un cantautore di quelli di oggi, bensì uno della vecchia guardia, classe ’49 per la precisione. Trattasi di sessantottino della prima ora, un bollino rosso centrato in pieno dalla freccia della storia italiana fatta di proteste studentesche, poi operaie, desiderio di emancipazione e libertà dei costumi, ribellione all’autoritarismo dei padri e delle istituzioni.

Questo artista-uomo, uomo-artista, si è prestato in pieno agli occhi di chi sapeva a cosa andava incontro e di chi ne aveva solo una pallida idea. Il desiderio di condividere la propria storia passata e la visione futura, la necessità impulsiva di raccontarsi, di spiegare il perché delle parole scelte, delle vicende e delle tematiche più sentite, vissute rigorosamente in prima persona: la scuola, la solitudine, la paura del mondo e delle donne, la droga come condanna o poesia, il sesso come legame di spiriti, l’amicizia come forma più completa dell’amore. Il Venditti che ne è uscito è stato un hic et nunc, un pane da spezzare sul momento, caldo di passione per quel che si è e si fa, consegnato a una massa di individui, che lui ha il coraggio (in senso buono) di chiamare amici, “i più sinceri”.

Ed è qui che l’umore cambia, nel vedere una fiducia schiaffeggiata da più di qualcuno. Mi spiego meglio facendo un po’ di cronaca: ieri sera Antonio, in arte Antonello Venditti, ha introdotto quasi tutti i brani da una spiega a braccio, tanto pensata quanto emotiva, a volte imperfetta, sempre personale. In qualche frangente si è dilungato un po’, prendendosi i suoi tempi, d’altronde, era il suo concerto speciale. Quando il pubblico ha compreso l’approccio del cantautore alla serata, sono iniziati alcuni fischi e lamentele. Presumo, quindi, che la gente fosse lì per sentirlo cantare, non certo parlare, la prosa vissuta come una bella perdita di tempo. Si dia il caso che, testimoni le mie orecchie, sopra di me sedesse una giornalista milanese, che più volte ha apostrofato Venditti con espressioni colorite: “Uno stronzo arrogante”, “Canta!”, “Sta delirando”. Tanto brava a riconoscere i signori giornalisti accomodati nella tribuna stampa quanto restia a comprendere il Venditti cantautore.
Non c’è da stupirsi: siamo nell’epoca del fast food, del consumare e bruciare in fretta, della velocità prima di tutto, anche nei piaceri e nell’arte. Siamo sempre più abituati allo show, alle performance, agli effetti speciali. Siamo sempre meno capaci di ascoltare e accogliere semplici e dirette parole che vanno a fondo nelle cose.

Venditti, nonostante la sua grandissima fiducia nel domani, è figlio di una generazione passata che non c’è più. Una generazione che non può che rimanere delusa dalla superficialità e dall’accidia che oggi affligge molti, almeno tanto quanto rimase delusa da se stessa quando i ragazzi dai capelli lunghi pochi anni più tardi furono relegati in un cassetto del comodino in soffitta, per ricoprire un solido e sicuro posto in banca. Una delusione che a Venditti ha spezzato il cuore ma che la signora dietro di me non ha esitato un attimo a minimizzare: “Ambé, se questa è una delle canzoni che lo ha fatto più soffrire!”. Stava per iniziare Giulio Cesare. Grande esempio di empatia e rispetto per l’intimità altrui.

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